giovedì 21 agosto 2008

NAIMA UNA STORIA COME TANTE


A causa di un progetto sull'immigrazione ho avuto la fortuna di intervistare una donna marocchina che qui chiamerò Naima.

La sera dell'intervista, sono riuscito a dormire ma con molta fatica, perché l'esperienza mi aveva sconvolto, pur avendomi Naima raccontato una storia ordinaria, senza parole pesanti, senza violenze esplicite: una donna marocchina che emigra per il suo sogno di vedere il mondo, una donna laureata, laica, musulmana e comunista. Una che in Marocco faceva le manifestazioni e subiva le cariche della polizia. "Ma allora non avevo paura -afferma- mentre oggi che sono in Italia si".
Fin dalle sue prime parole mi veniva in mente che il suo stesso viaggio, e con lo stesso spirito di avventura, lo hanno fatto migliaia di giovani europei e americani, per lo più di buona famiglia che partivano con in spalla uno zaino o una chitarra e se ne andavano verso le parti più disparate del mondo: la Francia, l'Olanda, l'India, il Sudamerica; con la voglia ed il sogno di conoscere mondi e persone diverse. Qualcuno è tornato dopo aver soddisfatto l'insopprimibile bisogno di conoscere l'altro che alberga negli spiriti migliori. Qualcun altro si è fermato stabilmente da qualche parte e lì si è costruito l'esistenza, nella quale l'incontro fra diversi è diventato elemento costitutivo della nuova vita.

Sembrava essere questa la cornice nella quale la giovane Naima s'imbarcava per l'Italia; non ha raccontato la storia che inizia con un gommone che arriva a Lampedusa fra pericoli, stenti, soprusi e violenze. Raccontava di un viaggio in nave, seppure senza biglietto, che la porta fino a Genova, dove il comandante la rassicura che sbarcherà "purché passi a trovarmi una volta scesi". E lei riesce a svignarsela e a trovare un alloggio grazie a connazionali che l'aiutano. E già da questo si intuisce che, fin dai nei primi anni '90, le discriminazioni erano molto pesanti: si poteva partire con il sogno di viaggiare e arrangiarsi senza una meta precisa, ma non era esattamente la stessa cosa se a farlo era un giovane parigino o bolognese piuttosto che una giovane donna di Marrakesh o di Ouagadougou.

Anche i connazionali che le trovano un alloggio sembrano non avere buone intenzioni, così Naima (e l'amica che viaggia con lei) si mettono a urlare e riescono a fuggire. Da qui in poi il racconto si fa frammentario, pieno di buchi, perché parlare davanti ad una persona conosciuta da due giorni, il fotoreporter, più altri due estranei non è esattamente agevole.
Ma Naima ha un bisogno quasi fisico di parlare, di raccontarsi. Ne viene fuori una narrazione piena di immagini ("sono una musulmana e porto la croce"), ricordi, frammenti, riflessioni, ("il nero tu lo associ al buio; io invece alla notte: perché nella notte vi sono delle luci, c'è la luna, ci sono le stelle. Si intuisce una via d'uscita"). Un racconto fatto soprattutto di lunghi, lunghissimi silenzi.
Io ero seduto di fronte e durante quei silenzi interminabili in cui lei mi guardava con i suoi due occhi smarriti e spaventati mi chiedevo come avrei fatto, dopo poco, a dire "Buonanotte, l'intervista è finita. Ciao".

Naima, con appresso il suo bambino piccolo, ci ha aiutati a dire buonanotte e ad andarcene ognuno a casa sua. Ma ci ha prima lasciato lo smarrimento e la disperazione dei suoi occhi, delle sue paure, delle sue parole e, soprattutto, dei suoi silenzi. La paura della solitudine, innanzitutto; ci ha raccontato che nel suo quartiere, ad alta concentrazione di immigrati, esiste una tacita classifica tra immigrati, per la quale ci sono comunità di serie A, B, C e via dicendo. Ma peggio di tutte è la condizione di una donna sola, laureata, marocchina, laica e con un figlio, che non viene accolta nemmeno dalla sua comunità.
Alla fine dell'intervista ha abbassato gli occhi ed ha emesso un lamento: "Voglio andare a casa!..." ....(silenzio).... "ma qual'è la mia casa?" ....(silenzio).... "In marocco non ce l'ho più e non mi ci sento" .... "qui ho la cittadinanza ma non mancano le occasioni in cui gli italiani ti ricordano chi sei:" ... "tu sei una marocchina. Non sei italiana"... "te lo rinfacciano ogni volta che fai un'osservazione, che chiedi un menù diverso alla mensa di tuo figlio" ... "ogni volta che dici la tua ­

rispetto alle mansioni sul posto di lavoro" ... "ti dicono: -che ne sai tu? sei arrivata adesso e ne vuoi sapere più di me?" ... " me lo dicono anche se sono cittadini italiana e sto qui da quasi 20anni".... "voglio andare a casa!".

Va bè. L'intervista è finita e si va a dormire. Ci si prova almeno, pensando: cosa posso farci? Posso, possiamo dare una risposta? Con questi pensieri torno alla mia vita di sempre. Trovo anche qualche occasione di contatto sociale e lavorativo per Naima e, quando glielo comunico, vedo che si illumina. Lo so, anche se ci sto parlando per telefono.

Mentre sto scrivendo un collega mi dice: "perdi tutto questo tempo a scrivere, a raccontare una storia come ce ne sono mille, tutte uguali? Bella scoperta: queste cose le sanno tutti". Il collega ha ragione: conoscere Naima è stata una bella scoperta.



Marco Milozzi