venerdì 5 giugno 2009

PERMESSO DI SOGGIORNO IN NOME DI DIO

L‘iniziativa dei comboniani di Castelvolturno, contro il "clima razzista" che si respira in Italia.

Roma – 1 giugno 2009 - Flussi d’ingresso bloccati, guerra aperta ai clandestini, guai a parlare di regolarizzazione. Di questi tempi, a chi vuole mettersi in tasca un permesso di soggiorno non resta che pregare. E chiederlo direttamente al Padreterno.

Ci sarà un ragionamento di questo tipo dietro i permessi di soggiorno “in nome di Dio”, che i Missionari Comboniani di Castelvolturno vogliono distribuire a tutti gli immigrati irregolari. Una provocazione già lanciata nel 2003 e riproposta oggi, in tempi di pacchetto sicurezza, perchè “a distanza di 6 anni, -sostengono i religiosi - la situazione sull'immigrazione è notevolmente peggiorata”.

Il fac-simile del “permesso di soggiorno per stranieri” vergato dall’Altissimo è già pronto. Ha carta intestata “Ministero del Regno di Dio – Amministrazione della Pubblica giustizia – Dipartimento della pubblica accoglienza” e quella formula “in nome di Dio” che spingerà molti poliziotti a togliersi il cappello mentre controllano il documento.

I Comboniani propongono di distribuire i permessi il 20 giugno, in occasione della giornata mondiale del rifugiato, e mentre raccolgono adesioni da tutta Italia, denunciano il “clima razzista e xenofobo” creato dall’ “avvento al governo di partiti e forze “eversive”, come la Lega”. Questa, accusano, “ha fatto dell'immigrazione il cavallo di battaglia per ottenere voti e così poter arrivare a Roma. Inoltre ha creato in alcune parti dell'Italia un cieco settarismo che ha coinvolto anche il mondo cattolico “.

Da missionari che conoscono il mondo, i padri di Castelvolturno ricordano allora che “il destino degli immigrati è anche il nostro”. “Oggi li rifiutiamo e li respingiamo nella nostra terra, dimenticando che noi siamo presenti nella loro terra molto spesso come coloro che sfruttano le loro ricchezze economiche, derubandoli, e corrompendo governi per impossessarsi di materie prime. Quindi, non si stratta solamente di un problema di carità o di bontà, ma di giustizia e condivisione”.

All’impegno civile, questi frati di frontiera sanno però accompagnare anche il rispetto delle tradizioni. Se il Viminale sforna ormai permessi di soggiorno elettronici, i permessi di soggiorno in nome di Dio sono stampati solo su carta, naturalmente celeste.

Elvio Pasca

venerdì 8 maggio 2009

SINDROME COMUNE: GIAMPATIC E IL SUO OSSO SACRO

Lavorare con Antonio Rezza e Flavia Mastrella e tutti i ragazzi della troupe spontanea costituitasi come GRUPPO QUARANTENA è stata un'esperienza micidiale, spossante, frenetica, devastante. In definitiva meravigliosa.

Tutta la fatica e la soddisfazione mi si sono accumulate sull'osso sacro e dal giorno successivo alla fine di Paesaggi Umani 09, il nostro (posso dirlo?) anomalo festival, non ho più potuto deambulare come una persona nel pieno possesso delle sue facoltà motorie. Piegato in due come un vecchio giunco vago per la casadimattoni nel tentativo (fisico) di mettere ordine (mental/emotivo) alla memoria iperdensa dei 3 giorni di laboratorio, anche detto Sindrome Comune.

Come in una specie di miracolo collettivo l'intero gruppo di 35 persone è riuscito, sotto le micidiali cure e i trucidi insegnamenti di Antonio e Flavia, a trasformare quello che l'anno scorso avevamo chiamato un esperimento di videocrazia collettiva, ovvero il lavoro di riprese e di interviste sul territorio della scorsa edizione dei Paesaggi, in una vera e propria produzione filmica, con tutti i crismi che una buona produzione richiede, dal superlativo montaggio, alle musiche originali, al discreto audio, fino a un eloquente backstage. Al punto che neanche il Rezza e la Mastrella, così attenti alla qualità e alla forma dei loro lavori, hanno potuto evitare di apporre la loro firma in calce al lavoro finito.


Lo scorso anno il GRUPPO QUARANTENA infatti si era mosso all’unisono per 3 giorni sotto le direttive dei due performers, spostandosi come un'abnorme troupe televisiva e seminando il panico tra gli abitanti di Monteleone di Fermo e di Servigliano, minuscoli comuni della provincia di Ascoli; alternando fasi teorico-riflessive di preparazione ad azioni di tipo video-documentario, alla ricerca di volti, di gesti e di voci che, nel loro ambiente urbano e naturale quotidiano, il collettivo intendeva raccontare i “paesaggi umani” di quei luoghi, da catturare con l’aiuto della tecnologia e da reinterpretare. L’incontro con gli elementi umani del paesaggio, con le loro reazioni e con le loro storie si era rivelato più dinamico e dialettico del previsto.Ognuno dei partecipanti, attrezzato a secondo del ruolo scelto (produttori, segretari di produzione, intervistatori, tecnici di ripresa audio-video, fotografi, operatori del backstage, montatori) faceva la sua parte nella numerosa equipe che, via via, avvicinava, coinvolgeva, intervistava e riprendeva le persone del luogo, colte (anche “di sorpresa”, soprattutto per una troupe così numerosa) nei loro ambienti e nelle loro occupazioni quotidiane, con un’attenzione particolare nel lasciar emergere, oltre le convenzioni e il condizionamento del medium tecnologico, le emozioni più autentiche e significative delle persone. Tutto il gruppo aveva così dato il suo contributo per la costituzione di un archivio di circa 14/15 ore di girato (interviste o interviste “mute”, sedute teoriche e backstage) e di migliaia di foto, che hanno costituito la base per il lavoro di post-produzione concluso tra l'1 e il 3 maggio di quest'anno.

Questa volta i quarantenati, segregati da Antonio e Flavia nel buio di un cantinone sotto la casa di mattoni, la comunità di Monteleone, hanno lavorato senza sosta, senza ristoro e senza sonno alla selezione delle immagini, al montaggio, all'audio, all'extrage e alle musiche, pur di arrivare alla festa di chiusura con la loro Sindrome Comune pronta per la prima visione.

Così Sindrome Comune è diventato un film.

Che a breve, speriamo molto a breve, presenteremo al pubblico e cercheremo con ogni mezzo di diffondere. Perchè è un opera che parla di singole persone, talvolta di solitudini, dal punto di vista di una collettività, nella tensione spasmodica al cambiamento. Nella volontà di un "ripristino immediato" dell'incontro, della condivisione, della comunità. Che la Sindrome Comune dilaghi presto in epidemia.

Finire il cortometraggio è stato una gran felicità. Una gran fatica. Lo sa bene la mia schiena.

Giampaolo Paticchio