lunedì 31 marzo 2008

premessa



Sono ormai note agli addetti ai lavori le diverse esperienze di comunità residenziali che utilizzando una classificazione sommaria divergono tra loro, per approccio metodologico e tipologia“d’utenza”.
Le comunità a cui siamo abituati a fare riferimento, quasi sempre, amano distinguersi proprio utilizzando termini che permettono una facile identificazione in merito al soggetto ospitato (minore,psicotico, psichiatrico, cronico, rifugiati politici…) , al sevizio offerto (residenziale, educativa, terapeutica, riabilitativa, semi residenziale….) e in relazione a questa nomenclatura .variano il tipo di relazione , il grado di decisionalità e libertà “dell’utente” nonché il grado di partecipazione attiva alla vita sociale .
Se la nascita di diverse tipologie di accoglienza e di vivere comunitario hanno permesso di potenziare e diversificare gli interventi, implementando competenze tecniche e strumenti operativi, proprio all’interno di ogni singola definizione si nasconde il grosso limite di gran parte di queste realtà che rischiano di diventare sistemi chiusi.
La comunità nasce come esigenza di un servizio, è frutto del sapere tecnico e come mandato ha quello di accogliere e aiutare soggetti svantaggiati; gli attori di questo servizio sono l’equipe tecnica, “l’utente”, nei casi più fortunati la famiglia di provenienza e soggetti più o meno istituzionali come scuole, associazioni, il grosso dello scambio relazionale avviene all’interno di questo ambito, senza dubbio competente, accogliente, curante ma che è tale, in molti casi, solo all’interno di quel setting .
Ttradizionalmente i servizi e gli stessi operatori dedicano maggior parte dei loro sforzi ad aiutare le persone a superare il proprio stato di bisognosi.
Si nota soprattutto l’enfasi su una condizione di mancanza che giustifica in maniera inequivocabile l’intervento tecnico: in altre parole “la deficienza” reale o presunta, costituisce l’ambito d’interesse delle scienze umane applicate.
D’altra parte, l’intervento educativo si fonda ampiamente sull’errore, su ciò che non è adeguato, quindi sulla mancanza.
Non è un caso che alcuni studiosi hanno sottolineato l’esigenza di cambiare il modello concettuale di approccio, adottando un modello definito della competenza, che rende possibile il passaggio della considerazione del disagio alla condizione di salute e di agio.
Nel modello della deficienza, ciò che è normale, ciò che è sano, viene considerato alla stregua di un’appendice del patologico, che è l’unica dimensione che interessa: della salute si vede quello che manca: in questi ambiti sono i problemi a catturare l’attenzione di chi vi opera.
Il rischio più frequente ,quindi, appare quello di costruire una relazione più o meno educativa all’interno di ambiti storicamente competenti dimenticando che la comunità non è altro che la riproduzione di un nucleo pseudo-familiare all’interno di una macrocomunità che a sua volta riproduce in grande scala equilibri, gerarchie e relazioni proprio come all’interno di qualsiasi nucleo familiare.
La macrocomunità, quindi è il terzo fondamentale attore nel raggiungimento degli obiettivi tipici della comunità ed è il soggetto che può generare il vero passaggio da sistema chiuso a sistema aperto incarnando un sistema di relazioni formali ed informali e detentore di un sapere non tecnico che calibra gli eventuali eccessi interpretativi del sapere tecnico.
Le persone e le macrocomunità possiedono infatti capacità e conoscenze che possono essere utilizzate per la soluzione dei problemi, il sapere e il saper fare popolare possono essere recuperati ed è soprattutto con questi mezzi che l’operatore deve confrontarsi poiché entra a far parte di un sistema di relazioni a lui sconosciuto.
La macrocomunità, nel nostro caso “il Paese”, viene riconosciuta dalla comunità educativa come soggetto attore della relazione educativa e non più come bacino d’utenza o una semplice area geografica.
Alla macrocomunità viene riconosciuta una competenza propria che viene implementata attraverso l’azione facilitante dell’operatore che promuove interazioni comunicative per la co-costruzione di informazioni e saperi che come finalità ha quella di attivare comunità competenti.
L’operatore da realizzatore di interventi diventa un attento assistente di processi ponendosi come mediatore e facilitatore di relazioni, non più custode o pseudo-genitore.
Più che di coinvolgimento della macrocomunità è opportuno parlare di vera e propria partecipazione, interazione e cittadinanza attiva.
La comunità come prerogativa ha quella di partecipare attivamente alla vita della macrocomunità utilizzando le risorse e il sapere non tecnico dei soggetti che la costituiscono, entrando a far parete di una relazione di scambio in modo paritario, ovvero questa non si esaurisce utilizzando le opportunità offerte ma si sviluppa generando all’interno della comunità opportunità a favore del benessere collettivo della macrocomunità prestando particolare attenzione al mondo giovanile, alle tematiche sulla famiglia intesa anche come unioni di fatto e nuclei allargati e promovendo attività ed opportunità aperte ai ragazzi della macrocomunità.
si concentrerà inoltre nelle attività che promuovano confronto sulle tematiche care ai nostri ragazzi e alle loro storie, come interventi a favore dell'intercultura e dello scambio tra esperienze come ad esempio migrazioni e guerra.
L’operatore di comunità diventa quindi interterritoriale poiché lavora all’interno della casa sentendosi parte attiva della macrocomunità e con lui gli ospiti che interagendo ed offrendo saperi e opportunità alla stessa: tra gli obiettivi dei loro progetti educativi avranno quello di sviluppare un senso di cittadinanza attiva.
È importante che la casa generi cultura dal momento che si osserva in diverse esperienze di tipo residenziale che nell’immaginario delle persone queste realtà vengono giudicate come luoghi di custodia, protetti ed impenetrabili, ma come abbiamo già citato la casa pur essendo in bilico tra l’istituzione e la non istituzione protende verso la ricostruzione di un nucleo pseudo-familiare e ha l’obbligo di ritagliarsi come famiglia allargata di fatto il suo ruolo da attore sociale.
“Uno degli elementi fondamentali della qualità della vita di un individuo, nel nostro caso dei ragazzi, e della loro capacità contrattuale, è rappresentato dalla misura in cui il proprio stare in un luogo diventa abitare questo luogo ovvero incidere sulle decisioni partecipando alle stesse.
Fra stare e abitare c’è una grande differenza.
Lo stare ha a che fare con una scarsa o nulla proprietà (non solo materiale) dello spazio da parte di un individuo con una anomia o anonimia dello spazio rispetto a quell’individuo che su detto spazio non ha potere decisionale né materiale né simbolico.
L’abitare ha a che fare con un grado sempre più evoluto di proprietà (non solo materiale) dello spazio in cui si vive, un grado di contratualità elevato rispetto all’organizzazione materiale simbolica degli spazi, degli oggetti, alla loro condivisione effettiva con gli altri.”

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